La crescente immigrazione, specie da paesi islamici, fa crescere sempre più l’attenzione non solo giornalistica per il fenomeno dell’Islam. Si tratta di un mondo ricco e differenziato di forme, di pratiche sociali e religiose, di stili di vita di oltre 50.000 musulmani in Piemonte. Si tratta di immigrati di differenti nazioni, età, tipi di lavoro, forme di immigrazione. Tutti i dati delle nostre ricerche indicano la differenziazione interna del fenomeno sulla base dell’appartenenza nazionale e il conseguente modo di intendere l’Islam; comprese le pratiche dell’osservanza del digiuno e del ramadan, la frequenza alla moschea il venerdì, la preghiera cinque volte il giorno, l’offerta rituale e il pellegrinaggio; ma soprattutto il rapporto tra religione e politica e l’applicazione delle leggi e delle pene coraniche.

La caratteristica dell’Islam piemontese è l’immagine poco statica ed essenzialista, ma plurale e differenziata. I modi di appartenenza si differenziano in relazione ai percorsi migratori, alle storie nazionali, ma anche ai dati individuali quali il sesso, l’età, l’istruzione, le reti sociali in cui si è inseriti. Non ultimo è anche da considerare lo spazio urbano quale luogo privilegiato della scomposizione/ricomposizione delle identità collettive e individuali, comprese quelle etniche e religiose. Il vecchio adagio secondo cui “l’aria della città rende più liberi”, così come ha interpretato le trasformazioni del cattolicesimo contadino nei quartieri industriali torinesi, potrà, forse, spiegare analoghe trasformazioni dell’islam “trapiantato” sulle rive del Po.

Considerando globalmente il fenomeno si possono indicare quattro aspetti di rilievo. Il primo è l’ostentata proclamazione di fede della maggioranza degli intervistati: massiccia adesione a tutte le prescrizioni e proibizioni della legge islamica. Individui che si considerano fedeli e osservanti, anche aldilà dei comportamenti effettivi. Metodologicamente, queste forme di eccessive dichiarazioni di fedeltà e attaccamento alla propria religione o alla propria Chiesa sono ben note in sociologia della religione come effetti di over-reporting; sono, cioè, del tutto funzionali alla ricerca di una identità collettiva per chi vive la propria religione o cultura in diaspora.

Il secondo aspetto è quello delle diverse forme di appartenenza all’Islam. Quella maggioritaria è l’appartenenza per tradizione, cui fanno riferimento sia i musulmani praticanti sia coloro che si proclamano musulmani indipendentemente dai comportamenti effettivi e dalla stretta relazione tra credenza e pratica. L’appartenenza per eredità guarda all’islam in quanto cultura, fonte di civiltà e di storia. Questa è una forma di appartenenza silenziosa, caratterizzata di debole attenzione per la sfera pubblica. Si tratta di individui in transizione verso forme di maggiore integrazione sociale e potenzialmente aperti a esiti secolarizzanti. E’ questa adesione “culturale” all’Islam che, in alcuni paesi europei (quali Francia e Germania) sembra diffondersi tra i musulmani di seconda e di terza generazione, più disponibili a rapporti attivi con l’ambiente circostante e decisi a vivere identità culturali plurime. La terza appartenenza per scelta, è aperta a due esiti nettamente contrastanti: quello della privatizzazione/individualizzazione della sfera religiosa, oppure la re-islamizzazione identitaria, che guarda all’islam come “religione pubblica”.

Questa ultima forma di appartenenza, che indicherebbe un Islam radicale, è quella che oggi occupa maggiormente il dibattito. Come interpretare dunque il fatto che una parte dei musulmani sostiene la legge islamica della shari’a e vorrebbe che le leggi islamiche fossero applicate anche nei casi di diritto di famiglia, in materia di furto e di adulterio? Sono cifre che vanno lette con attenzione. Questa maggioranza di islamici apprezza le norme della shari’a perché sono quelle alle quali era abituata nel contesto di nascita; ma sa bene di trovarsi ora in un contesto diverso. Così si spiegano le posizioni favorevoli dei maschi, e ancor più alte tra le intervistate, al lavoro delle donne e al fatto che queste posseggano la patente di guida. Si tratta di una necessità economica e organizzativa, ma anche di un profondo adeguamento.

Il terzo aspetto di rilievo è la tipicità dell’Islam piemontese a confronto, per esempio, di quello del nord-est. In Piemonte c’è una maggiore presenza di egiziani e di somali: si tratta di comunità dove la percentuale di islamici osservanti è più alta rispetto a quelle magrebine. In Lombardia e in Veneto queste nazionalità sono, in proporzione, meno rappresentate; mentre in Piemonte esse contribuiscono a riequilibrare i dati che riguardano la comunità albanese. Per molti albanesi, infatti, l’essere islamici è una specie di dato acquisito insieme alla nazionalità. I valori fondanti del loro comportamento, però, non sono quelli della  shari’a, la legge cranica, ma del Kanun, l’antica legge tribale.

Un quarto aspetto di rilievo riguarda le prospettive dell’immigrazione islamica in Italia. Non esistendo nell’islam un’unica autorità riconosciuta da tutti, è prevedibile che permanga anche in futuro  una realtà variegata di atteggiamenti e di politiche. Questa prospettiva non pare allarmare gli autori delle conclusioni della ricerca, i quali indicano tre tendenze possibili: privatizzazione della sfera religiosa, re-islamizzazione identitaria, secolarizzazione. A seconda del prevalere di questa o quella tendenza si definirà non solo il futuro di parte rilevante dell’Islam in Italia, ma anche il quadro di convivenza tra società italiana e musulmani.